RIFLESSIONI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

coronavirus

Premessa

Il Coronavirus ha alterato la vita delle persone, mettendo in campo una serie di sfide sociali, psicologiche, economiche, politiche e scientifiche e palesando punti critici dentro e fuori di noi. A livello globale, si registra un’impennata di sintomi ansiosi e/o depressivi, oltre che stress, insonnia, negazione, rabbia e paura.


L’impatto economico della crisi, legata al diffondersi della pandemia, poi, ha dato il suo forte contributo: milioni di persone hanno perso il loro posto di lavoro; storicamente, fasi di recessione economica sono da sempre associate a un incremento di disagio psicologico e a un maggiore rischio suicidario nella popolazione.


Anche la violenza entro le mura domestiche ha subito un forte incremento. Il Coronavirus ha evidenziato una serie di falle nei sistemi sanitario e socio-assistenziale, in quello politico-istituzionale e governativo, nel mondo medico-scientifico e nel sistema produttivo.

Coronavirus ed il concetto di limite

Il Coronavirus ci ha costretti a fare i conti con la finitezza, la casualità, la fragilità e con la consapevolezza che nemmeno la Scienza, la tecnica e la cieca fede nel progresso possano salvarci dall’insicurezza e dalla precarietà della nostra esistenza. Allargando lo sguardo, occorre sottolineare che il mondo moderno ha scarsa dimestichezza con il concetto di limite.

In un’epoca di viaggi veloci e comunicazioni istantanee, di consumi immediati e godimenti sempre reperibili, sperimentare restrizioni e frustrazioni imposte in ogni angolo del globo, in nome di un bene superiore, segna una rottura senza precedenti, anche se di familiare e religiosa memoria. Gli stessi concetti di spazio e di tempo hanno subìto un grande cambiamento.

Sotto questo profilo, basti pensare alle nostre abitazioni, popolate all’improvviso da attività che prendevano posto altrove – nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle palestre, nei bar – determinando una sempre maggiore difficoltà nel separare pubblico e privato, esterno e interno.

Tutto ciò che scandiva i ritmi della vita collettiva è stato sospeso: il tempo concepito come lineare ha avuto una battuta d’arresto. Anche il tempo del riposo e il tempo del lavoro si sono mescolati, sigillati all’interno una casa-fortezza nell’illusione che solo dentro quel preciso perimetro si è al sicuro, e che questo consenta di annullare il pericolo della morte che aleggia sui banchi di scuola, sulle piazze deserte, negli aeroporti, sui tavolini dei bar, nei cinema, nei teatri, negli abbracci e nei baci e nell’incontro con l’”Altro”.

Il corpo dell’Altro, il suo tocco, il suo odore, così necessario e indispensabile per la vita sin dal concepimento, è diventato pericoloso, ospite di una minaccia invisibile e mortifera da cui proteggersi, da evitare, da tenere a distanza, perché può danneggiare o uccidere. È questo l’effetto deleterio della paura: la sfiducia verso l’Altro e il rigetto di tutto ciò che ci rende umani. La matrice di ogni forma di razzismo e discriminazione si arricchisce di un dato ancor più inquietante: noi stessi potremmo diventare veicolo di contagio ed essere quel pericolo che temiamo nell’altro.

La necessità della psicoterapia

Per quanto finora detto, diventa necessaria una politica di gestione dei corpi, di controllo capillare del loro dispiegarsi nello spazio, della loro collocazione, dei loro spostamenti, dei loro legami gli uni con gli altri.

Per la loro sopravvivenza un unico imperativo: rinunciare alla vita per evitare la morte; le uniche attività consentite: produzione e consumo. Nessun incontro, niente assembramenti, nessun’attività ludico-ricreativa, nessun contatto fisico.

Quello che tutti chiedono è maggiore sicurezza e, per ottenerla, si è disposti a tutto, anche alla rinuncia alla vita e della libertà individuale in cambio di una sopravvivenza puramente biologica ed economica.


Improvvisamente, ci siamo scoperti fragili, non più onnipotenti. Tutti mortali, tutti potenzialmente malati, nonostante il tentativo di cancellare ogni genere di malattia, deformità, bruttezza o segno del tempo. Nonostante i tentativi di controllo sulla natura, sui suoi ritmi, le sue stagioni, il clima. Ci appelliamo alla Scienza, ma nemmeno il sapere scientifico sembra riuscire a fornire alcuna certezza.

Soli, angosciati, impauriti e senza punti di riferimento ci rifugiamo nell’isolamento, nelle distanze, nella negazione – fingendo che il pericolo non sia reale – nell’iper-controllo e nelle rigidità di protocolli che diano una qualche parvenza di protezione.

Il risultato? Un blocco del pensiero, il prevalere del primitivo, tra paura e angoscia, e di ciò che stiamo conoscendo senza la capacità e la possibilità di renderlo pensabile. Siamo diventati estranei a noi stessi. Pericolosi gli uni per gli altri.

E’ per questo che la psicologia dovrebbe poter ricucire questo enorme strappo, consentendo, attraverso la verbalizzazione del vissuto personale e collettivo, di ripensare al nostro stare: stare nell’angoscia, nell’incertezza, nella fragilità, nella precarietà, nel negativo, ma con l’altro e nell’ambiente che ci circonda, in una riflessione che consenta, attraverso la morte, di dare nuovo senso alla vita e al nostro essere-nel- mondo.

Dr.ssa Moni Barreca, psicologa clinica, specializzanda in Psicoanalisi e
Gruppoanalisi (SPPG)

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